MYOP, racconto dei racconti
Di Kalòs (Gianni Di Matteo)
Un’isola non può che ospitare “genti di confine” e la Sicilia è confine immerso nell’indefinito confine mediterraneo. Al centro di quest’isola che divide mari e continenti c’è un luogo, una vetta, il monte Cammarata, da dove puoi scorgere a est la cima dell’Etna che si getta nello Ionio, a nord le Madonie e uno scorcio del mar Tirreno, a sud la catena dei Sicani e le coste del mar Mediterraneo che guardano l’Africa. Qui è nata MYOP.
Negli anni dieci del nuovo secolo l’onda lunga della grande crisi economica impatta violentemente sull’isola, gli artigiani pagano il prezzo più alto, saperi taciti e mani sapienti rischiano di scomparire, è un nuovo tempo di migrazioni ma anche di ritorni. Riccardo Scibetta è fotografo affermato che vive tra Roma e Milano e viaggia per il mondo, adesso però bisogna serrare le fila, serve un’idea, l’azienda di famiglia subisce un forte ridimensionamento, con lei soffre un intero territorio. Il suo, pensa, è un ritorno temporaneo, la sua strada è il racconto per immagini: «Mi divertivo di più a guardare le singole cose che incontravo» scriveva nel luglio del 2011 presentando Underground, la sua ultima mostra romana. «Scibetta cammina nel dubbio» è la frase finale e premonitrice di quel testo di presentazione. Il 26 dicembre, mentre, sulle scogliere bianche dell’agrigentina Scala dei Turchi, Riccardo riflette sul da farsi, una mano ladra, inconsapevole e disperata, cambia il suo percorso. Riccardo giù in spiaggia osserva il mare, in alto, sulla strada, la sua auto viene saccheggiata. Della sua attrezzatura, del lavoro custodito, delle foto, dei progetti futuri non rimane più nulla, è un segno. Il filo del ragionamento si aggroviglia ancor di più e infine si dipana nell’acronimo MYOP – Make Your Own Path, “Crea il tuo percorso”, questa diventa la nuova sfida non più solitaria, da affrontare insieme, un invito a condividere, a unire le forze. Nelle parole di MYOP e dei suoi attori c’è tutto quel che serve per comprendere questo progetto che unisce persone di natura diversa: designer, scrittori, musicisti, fotografi, imprenditori, artigiani e contadini. MYOP si fa mezzo di comunicazione, modalità di relazione, piattaforma dove acquisti prodotti, ascolti racconti, vivi una passione. «Ho sempre provato a far cadere i confini» ha scritto Riccardo Scibetta che si definisce, dal 2013, lo “sguardo” di MYOP. «Entrare nell’universo di MYOP vuol dire varcare la soglia di un mondo di possibilità». Qui il confine, quello «spazio che si trova “tra” le cose, quello che mettendo in contatto separa o, forse, separando mette in contatto, persone, cose, culture, identità, spazi tra loro differenti», diventa frontiera che non fronteggia, non minaccia, non è rivolta verso (contro) qualcosa o qualcuno, se non verso se stessi come sfida da accettare, uscendo dallo spazio familiare, conosciuto, rassicurante, limite oltre il quale avventurarsi, per rinnovarsi, per ritrovarsi. È forse in questa sintesi dei due margini del limite, quello esterno, avventuroso, della vita, delle relazioni con l’altro e quello interno, intimo, rassicurante, la cifra del fare progettuale che anima MYOP, che diventa racconto dei racconti. Perché gli uomini, se trovano il filo della storia, «si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos» ci ricorda Musil. Quel che ci tranquillizza è «infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita».
MYOP si racconta attraverso i suoi prodotti, ma, come sostiene Antonella Penati, «Non è possibile pensare gli oggetti e ragionare attorno al significato che essi assumono, separandoli da chi li progetta, li produce, li mette sul mercato, li comunica». A parlare è quindi anche Ignazio Cusumano che dice «La mia formazione inizia alla scuola elementare, ma non a scuola» bensì nell’azienda di carpenteria metallica e nei cantieri del padre. Da adulto l’incontro con un professore della Bocconi e il mestiere di consulente strategico manageriale. Poi la svolta con un vissuto d’azienda che riemerge prepotentemente: «Ormai ho capito che consulente non voglio essere. Quando togli tutto quello che non vuoi, restano veramente poche cose», tra queste MYOP di cui è co-fondatore. Domenica Di Dolce ha invece iniziato facendo un po’ di tutto, a lei piace far quadrare i conti ma si appassiona nel seguire le fasi di lavorazione, adora «osservare le cose, vederle realizzare, valutarne l’utilità e la bellezza, scoprire i punti di forza e debolezza dei prodotti e dell’impresa». Di MYOP è co-fondatrice perché «Forse è un’utopia, un sogno, questo di pensare, di basare l’intera produzione sulla relazione, sulla collaborazione. È difficile fare le cose con gli altri, ma dobbiamo pur provarci. E inseguire i sogni».
Con loro, a condividere questa utopia realizzata di un laboratorio diffuso, tanti partner e amici, architetti dal profilo internazionale come Salvator-John A. Liotta e Fabienne Louyot o artisti come Sonia Giambrone e Antonio Aricò. E poi imprenditori e artigiani dal know-how diversificato, musicisti e appassionati buongustai, pupari con le loro mille abilità artigiane e fabbricatori di trombe, tessitrici, ceramisti, grafici e decoratori, un piccolo esercito con una comune visione del progetto vissuto come racconto. Prima che al computer o davanti a una macchina a controllo numerico in fabbrica, sembra di vederli riuniti intorno al fuoco, intenti a immaginare il futuro, la prossima cosa da fare, da disegnare, da realizzare, consumando il rito di un pasto collettivo. Forse per questo uno dei primi oggetti prodotti è MAIDDA, antico raccoglitore siciliano in legno di faggio dove lavorare la farina e impastare il pane ogni due settimane, rituale delle famiglie di campagna che, nelle pause del pranzo durante i lavori per la mietitura del grano o per la vendemmia, da quello stesso contenitore attingevano tutti insieme i maccheroni al sugo.
«Un designer – sosteneva Ettore Sottsass – dovrebbe sapere che gli oggetti possono diventare lo strumento di un rito esistenziale e questo non è industrial design: è Design», che riesci a fare «[…] se conosci bene la vita, le vite, le storie antiche, i fantasmi del passato e quelli del futuro». La dimensione del rito e del mito, o meglio del «mýthos nel senso di “discorso”, “narrazione”, “racconto”» è il filo conduttore di MYOP. Per ogni prodotto una storia: la storia di MARANTÒ, parete divisoria nata dalla rivisitazione, in ottone, acciaio, rame e bronzo, di una tenda creata all’inizio del Novecento dalla signora Marantò, che trasformò migliaia di pezzi di metallo di scarto in tubicini e li collegò tra di loro realizzando una tenda per la bottega artigiana del marito, in modo che gli elementi della tenda oscillando producessero suono segnalando l’accesso in bottega; la storia di GINA, lampadario a candelabro in sottile multistrato di legno, opera da orologiaio, da orafo, che sul finire degli anni Sessanta Enzo Scibetta realizzò con matita, archetto da traforo, succhiello, morsetti, raspa, colla, punte, coltelli da falegname, passione e pazienza. Dopo più di cinquant’anni il ritrovamento, l’intuizione di usare l’acciaio, il computer e le macchine a CNC, per dargli nuova vita; la storia di FILOdiFUMO, intarsio di fumo d’Etna, filo d’aria, traccia, solco d’ombra, inciso nella lava e riempito di smalto; la storia di ACANTO, ceramica che esplode nel barocco di fiori aggettanti che sanno di luminarie e architetture effimere, erette nei vicoli durante i giorni di festa; la storia di A SIGNURINA, archetipo vernacolare e ironico della sedia di campagna, icona dell’infanzia che rappresenta la forma della nostra cultura e dei nostri tempi.
Queste e le altre storie, prima ancora che parlarci di una collezione di manufatti pregiati e pezzi unici, che guardano alla tradizione attualizzandola, rappresentano un metodo, un approccio sartoriale che colloca pienamente MYOP nel solco di un design figlio della società post-industriale. Infatti la fine del mito della grande serie ha aperto nuovi mercati di nicchia per le aziende capaci di operare anche attraverso piccole serie, serie diversificate e oggetti unici, per corrispondere a modelli di consumo sempre più affascinati da miti e mondi immaginari, ricchi di eccezioni, di emozioni e tendenze che richiedono una progettualità applicata sia a fattori materiali sia a fattori immateriali, assottigliandosi sempre più la differenza tra tecnologia industriale e artigianale. Il design italiano ha sempre avuto inoltre una propensione, oltre la sfera della pura utilità, alla riflessione critica e talvolta alla denuncia sociale, affidata, come ricorda Branzi, quasi esclusivamente all’ambito delle edizioni limitate, del pezzo unico o della piccola serie. In MYOP questa propensione esiste ma non è mai esibita in piazza, non è mai gridata, semmai assume i toni di un conversare intorno al camino, sapendo che gli oggetti, come i riti e i miti, parlano, sono testi, sono oggetti-discorso che raccontano di bisogni e desideri. Così come «una fotografia sarà parola allo stesso titolo di un articolo di giornale. Gli oggetti stessi potranno diventare parola, se significano qualche cosa» scriveva Barthes. È la ricerca di senso che fa quindi la differenza, è il saper vedere e il saper far vedere. MYOP è allora uno sguardo, che confonde e mescola, sovrappone e stratifica negli oggetti d’uso quotidiano la vita, le vite, le storie antiche, i fantasmi del passato e quelli del futuro.